Primordial Land
Proseguimento coerente delle sue precedenti ricerche il Pianeta Perduto e Percorsi incantati, l’attuale progetto fotografico di Beba Stoppani, Primordial Land, sembra nascere da un sorta di pratica rituale per ritrovare un rapporto con il mondo naturale. «Ritorno con lo sguardo e col cuore a una Terra Primordiale, ai suoi magnifici incanti, in equilibrio sospeso da tempi remotissimi e che ora oscilla tra sopravvivenza ed estinzione» – scrive l’autrice. In un paese, come la Namibia, dove la maggioranza dei fotografi si sono impegnati a mostrarne semplicemente la bellezza esteriore, sottolineando con immagine patinate il fascino delle alte dune del suo deserto sabbioso o lo splendore dei suoi parchi naturali, lei segue un altro percorso, un altro approccio visivo ed esperienziale.
Un approccio che evita ogni narrazione accattivante per proporre immagini risonanti, cariche d’intensità, dove la terra si trasforma in una presenza. Il suo è un indugiare contemplativo. Qui infatti ogni immagine, ogni dittico o trittico, sono simili al verso di una poesia che accenna a qualcosa di più profondo, di concentrato e quasi invisibile. Il suo operare è basato su una pratica progressiva di approfondimento che la porta a osservare la crosta della terra dall’alto, nella sua magnificenza e intensità vitale, per poi, progressivamente, avvicinarsi sempre di più, fino a indagare le crepe del terreno squarciate dalla siccità, i “volti” e la pelle degli animali che vi vivono.
Beba Stoppani non solo si approssima e si pone in una posizione di ascolto della terra, ma osserva anche il cielo che la illumina. Una volta celeste vista nella sua purezza, con immagini simili a riquadri luminosi e astratti.
Vedendo le sue opere pare di riudire uno scritto di Heidegger: «Lo splendore e la luminosità della pietra, che [la terra] sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria. La solidità dell’opera fa da contrasto al moto delle onde, rivelandone l’impeto con la sua immobile calma».
Sì, le fotografie di Beba Stoppani sembrano sorrette da un’immobile calma, dove si coglie la potenza di un oltrepassamento del puramente visivo, un coinvolgimento del corpo e del cuore nel farsi dell’immagine.
Lei si pone di fronte alla terra, una terra essiccata e arida, la osserva e la presentifica nel suo silenzio,
ne è ri-guardata, implicata. Nelle sue opere non ci sono diluizioni in fughe narrative, semmai accostamenti in dialogo tra loro, tra il presente e un passato arcaico, tra il vicino e il lontano. Così due immagini di dipinti rupestri con scene di caccia sono accostate a quella di un gruppo di zebre che paiono a loro volta immobilizzate nel tempo. Tali dipinti ci ricordano i saperi di chi abitava queste terre arcaiche e si offrono come tracce di un’antica bellezza, che l’autrice raccoglie dalla culla del loro passato per riattualizzarle, per rivelarle come l’endocosmo di una cultura, come un serbatoio di metafore e memorie, e non solo come banali segni di archeologia rupestre. Là nel deserto, nella savana, dove molti avvertono solo un senso di morte e solitudine, o la bellezza “selvaggia” di chi la osserva solo da una jeep, Beba Stoppani sa restituire senso e pregnanza alla crosta terrestre, alla sua storia e agli esseri viventi che la popolano e l’hanno abitata consapevoli delle leggi scritte nell’Universo. Sa ascoltare la loro voce, sa leggerne lo spessore e le pieghe, ci fa riudire il linguaggio obliquo dei tempi geologici: un linguaggio che si sviluppa e si può cogliere solo per sospensioni e attese, trattenendo il respiro.
Gigliola Foschi