URBILD
Residenza artistica di Gianfranco Basso / Francesca Loprieno A cura di Carmelo Cipriani
Questo progetto di residenza vuole essere un ulteriore, fertile strumento per approfondire il fulcro tematico della ricerca artistica di Red Lab Gallery di Milano: il delicato e spesso conflittuale rapporto fra Uomo e Natura, oggi messo duramente alla prova. La nuova sede di Lecce, voluta fortemente dalla gallerista Lucia Pezzulla, originaria del Salento, affianca dall’autunno scorso la sede milanese e amplia gli orizzonti di questa ricerca, grazie ad un rapporto ancora più stretto con il territorio.
Diario di bordo
a cura di Carmelo Cipriani
16 agosto 2021
Comincia il viaggio
Ci siamo. L’attesa è conclusa. È partita oggi a Lecce l’esperienza di RedLab Artist-in-Residence, progetto di residenza artistica promossa da Red Lab Gallery di Milano. Questa prima edizione coinvolge gli artisti pugliesi Gianfranco Basso (nativo di Lecce ma residente a Roma) e Francesca Loprieno (originaria di Trani ma attiva a Parigi). Lunghe conversazioni telefoniche con gli artisti invitati, con la gallerista Lucia Pezzulla e con Giovanna Gammarota, direttore editoriale di “Tutte quelle cose”, rivista online nata da Red Lab Gallery, incontri in videoconferenza e molte ore di riflessione hanno connotato la fase di preparazione, durata mesi. Riflettendo le linee d’indagine della rivista, il progetto porrà in relazione (sinergica e mai forzata) due artisti differenti, uno che ha come mezzo privilegiato (ma non esclusivo) la fotografia, l’altro invece che non l’adopera o che l’adopera in modo secondario, subordinandola ad altre procedure espressive. Il tema di questa prima edizione è Urbild, “immagine primordiale” o più semplicemente “archetipo”. L’intento è quello di dialogare con il territorio e con quanti lo vivono, di raccontarne la memoria rintracciandone le radici culturali più profonde.
Dalla residenza all’attraversamento
Quella della residenza è oggi una pratica artistica assai diffusa. Forma di sperimentazione relativamente giovane (almeno nei suoi aspetti statutari), essa consente una relazione con il territorio, con la sua gente e la sua storia, portando ad un reciproco arricchimento tanto l’artista quanto la comunità ospitante. Tuttavia il termine “residenza” rinvia ad un’idea di perdurante stanzialità che in alcun modo connota questa specifica pratica artistica, sempre circoscritta nel tempo, nè lo stesso modus vivendi dell’artista, sempre di natura nomadica (così almeno dovrebbe essere). Meglio sarebbe forse parlare di “passaggio”. Ma questo termine tuttavia ha semanticamente un significato opposto a quello di residenza, denotando la non permanenza dell’artista sul territorio, rendendo così difficile lo stabilirsi di relazioni, dialoghi e finanche discussioni, in altre parole a lasciare un segno il più possibile duraturo sulla terra e nella mente di chi la abita. Sarebbe allora più appropriato parlare di “transito”, o ancora meglio di “attraversamento”, parola questa che segna sì un passaggio ma che porta con sé, almeno figurativamente, l’immagine di un andare all’interno, di una conoscenza meno superficiale delle cose e dei fatti. A tal proposito trovo interessante che una delle sezioni della rivista s’intitoli proprio “Attraversamenti”, rafforzando ulteriormente il legame con il progetto di residenza.
Il ricamo della memoria
Ma arriviamo ai fatti. Nel primo incontro, svoltosi oggi nella sede leccese della galleria, oltre a stabilire il calendario di visite a maestranze e botteghe significative per l’identità salentina, che racconterò giorno per giorno nel corso della residenza, sono emerse le prime linee di ricerca, passibili naturalmente di cambiamenti, anche significativi. Per Francesca Loprieno la fotografia è accumulo e catalogazione, ma anche relazione tra uomo e paesaggio. L’artista punta a lavorare sull’antica arte del ricamo, in particolare sull’immagine delle ricamatrici, dando origine ad un memoriale. Incipit della riflessione, che in corso d’opera si aprirà al paesaggio, al mare in particolare, sarà il patrimonio conservato dalle donne nei bauli (quelle che nel Salento si chiamano “casce”), il famoso “corredo”, vera e propria dote per la donna, testimonianza di storia familiare, fatta di sforzi collettivi e di aspirazioni sociali. Un lavoro di accumulazione d’immagini di warburghiana memoria, attraverso cui Francesca proietterà nel presente un sapere antico, raccontando storie personali che hanno però carattere universale, attraverso le quali potrà rintracciare à rebours le immagini primordiali, gli archetipi. Per Gianfranco Basso il ricamo è il mezzo espressivo prediletto, valido tanto sulla tela quanto nello spazio. L’artista, partendo dal cerchietto delle ricamatrici, ma anche dai tamburelli e dai setacci (denominati nel Salento “farnari”), risalirà al cerchio come forma archetipa, struttura primaria e generativa. Anche per lui il ricamo, dunque, costituirà il viatico per l’Urbild. La residenza, fin da questo primo incontro (al quale hanno preso parte anche alcuni amici passati a trovarci) si configura come attività di esplorazione che poi si tradurrà in esposizione. Punto di partenza di questa indagine diffusa sarà, insieme a Lecce, la vicina Surbo, dove entrambi gli artisti alloggiano e dove si svolgeranno i primi, costruttivi dialoghi con la comunità ospitante. Buon attraversamento a tutti e stay tuned.
18 agosto 2021
Il fascino di San Cesario
A sette chilometri da Lecce (r)esiste un luogo che non ti aspetti. È San Cesario di Lecce, piccolo paesino immerso in un silenzio metafisico, anche in piena estate, quando il Salento, il tacco d’Italia, è terra di vacanzieri. Una sensazione di tranquillità che si fa ancora più pervasiva all’ora del meriggio, alla controra, quando la calura rende arduo camminare tra le vie e la luce solare, al suo apice, s’infrange sulle facciate dei palazzi, facendo risaltare la naturale colorazione della pietra leccese, dall’avorio al giallo paglierino. È partita da qui, da questo tipico paese salentino, la nostra esplorazione. San Cesario è luogo con un’insolita predisposizione all’arte, non solo per i suoi pregevoli beni architettonici: il Palazzo Ducale, la chiesa Matrice, la chiesetta romanica di San Giovanni Evangelista, il Santuario della Pazienza, moderna casa d’artista del primitivo Ezechiele Leandro, le cinque distillerie, veri e propri gioielli di archeologia industriale, ma anche perché qui sono nati non pochi artisti salentini del Novecento, oltre al già menzionato Leandro, anche i fratelli Carlo e Francesco Barbieri, Aldo Calò, Nullo D’Amato, Giovanni Valletta, Cosimo Damiano Tondo ed altri ancora. La piazza principale è contesa tra la Chiesa Matrice e l’antico Palazzo Ducale (oggi sede del Comune), in altre parole tra potere religioso e potere civile, uno di fronte all’altro, in un confronto che dura da secoli, ancor prima della fondazione degli stessi edifici.
Splendida costruzione cinquecentesca, già protobarocca, il Palazzo Ducale s’impone maestoso. La sua facciata fu decorata da grandi figure nel 1626. Un popolo di statue di pietra che sorvegliano la piazza e che da quattrocento anni s’impegnano in muto colloquio con la comunità salentina. Anche noi oggi ci sentiamo partecipi di questa conversazione
secolare.
All’ultimo piano il palazzo ospita il Museo Civico di Arte Contemporanea. La collezione contiene opere degli artisti nativi di san Cesario ma anche di altri. Spicca un bellissimo Ritratto maschile di Domenico Cantatore, opera giovanile dell’artista, prossima per stile all’Autoritratto conservato nella Pinacoteca Metropolitana di Bari. In esso si avverte ancora
tutto il peso di Novecento. Francesca si sofferma a guardare un’opera astratta di Romano Sambati. Fa parte del ciclo Rerum Naturae. La Natura si trasfigura in una realtà altra, sovrasensibile. Gianfranco invece si perde nei piccoli meandri dei battenti di Salvatore Saponaro. È il bozzetto a grandezza naturale della porta che lo scultore ha realizzato per il Duomo di Milano. Piccole sculture lo animano, ma senza troppi drammi chiaroscurali. Sembra un grande centrino.
Torniamo al piano terra. Visitiamo l’antica cappella palaziale. Qui i due poteri di cui si è detto trovano una tregua. È un luogo che il tempo ha depauperato. Privata dell’altare e delle pitture che un tempo decoravano le pareti (forse ancora esistenti sotto pesanti strati di intonaco), la cappella è oggi un white cube che bene si presta a funzioni altre, anche ad inediti dialoghi con l’arte contemporanea. Un luogo affascinante di cui tanto Gianfranco quanto Francesca avvertono il fascino. Andiamo via con un nuovo bagaglio d’immagini e con la consapevolezza che a San Cesario torneremo, se non altro per restituirgli in forme mutate quanto ci ha donato.
19 agosto 2021
Le due facce del Salento
Giornata intensa quella odierna, iniziata di buon ora. L’esplorazione, condizione necessaria alla residenza intesa come attraversamento, ci ha portati nel basso Salento, prima a Casamassella, poi ad Otranto, località vicine eppure diverse. La prima, frazione del Comune di Uggiano La Chiesa, è il tipico paese salentino, silenzioso e arcaico; la seconda invece è luogo turistico per eccellenza, affollato e mondano. Casamassella è località poco nota, estranea alle dinamiche vacanziere, ma non a quelle delle tradizioni popolari e degli antichi mestieri. Anzi sotto questo punto di vista è luogo centrale. Un protagonismo conferitogli dalla Fondazione Le Costantine, struttura fondata da donne per donne, impegnata nella tutela e nella promozione dell’arte della tessitura. Per raggiungerla percorriamo un antico tratturo, affiancato da distese di ulivi, molti dei quali disgraziatamente bruciati dalla Xylella.
Donne fra arte ed emancipazione
Quella della Fondazione è una storia affascinante. È nata ufficialmente negli anni ottanta, ma le sue radici affondano agli inizi del Novecento, quando due donne, un’americana e una nobildonna locale, scelgono la tessitura come strumento di emancipazione femminile. Con estremo pragmatismo comprendono che la tessitura poteva essere un mestiere in grado di consentire alle donne di affrancarsi dalla dipendenza maschile. Il principio era semplice: se lavoro guadagno e posso emanciparmi. La vera fondatrice è Giulia Starace, discendente della nobildonna, che due anni prima dalla morte, nel 1982, dopo una vita di impegno sociale e civile, dà origine a quanto oggi vediamo. Una vita vissuta per gli altri, in particolare in favore delle donne e dei bambini, che in paese fa nascere il detto “Vanne da Donna Giulia ca te sana” (Vai da Donna Giulia che avrà cura di te). La produzione odierna della Fondazione è varia e tutta raffinatissima. Si pratica ancora l’antico fiocco salentino, un punto a rilievo che rende il tessuto prossimo ad un bassorilievo. Ad accoglierci è Maria Cristina Rizzo, che dal 1998 dirige Le Costantine con tenacia, competenza e totale dedizione. Vediamo le tessitrici lavorare. Gianfranco ne è letteralmente rapito. Avvolte dalle strutture lignee dei telai, le loro mani scorrono veloci tra i fili tesi dell’ordito, componendo trame con motivi decorativi antichi, desunti dall’ampio archivio della Fondazione (oggi tutelato dal Ministero della Cultura), ma anche motivi composti ad hoc, richiesti da artisti, architetti, designers, creativi di ogni genere. Tra gli
ultimi in ordine di tempo anche Maria Grazia Chiuri, art director di Christian Dior. L’attività prioritaria è quella della tessitura, ma l’impegno della Fondazione si esplica anche nella formazione dei giovani, nella falegnameria e nell’agricoltura biodinamica. Facciamo un giro nelle terre attigue. Scopriamo angoli magici. Gianfranco ritrova cerchi ovunque, dalle sedute poste ai piedi di una grande quercia all’aia per la macinazione del grano. Francesca indugia sui pertugi di luce che si aprono tra le foglie. Sono ricami di cielo. Scopriamo anche un’affascinante arnia semicircolare oramai in disuso. Lucia, la nostra gallerista, che di questi luoghi è originaria, ricorda momenti d’infanzia.
Salutiamo e ringraziamo quante ci hanno accolto, a cominciare dalle tessitrici, le nostre “mesce” (“maestre” in salentino). La nostra gratitudine è grande per quanto ci hanno donato.
Otranto arcaica e visionaria
Riprendiamo il percorso. Giungiamo ad Otranto. A Torre Matta, antico presidio militare oggi luogo per l’arte contemporanea, incontriamo Davide De Notarpietro e Francesco Scasciamacchia, fondatori di Cjiaru, associazione che da due anni lavora in senso transfrontaliero, sostenendo e promuovendo le ricerche artistiche contemporanee. L’artista invitata in questo secondo anno di attività è Maria Papadimitriou, autrice greca di fama internazionale. Nei giorni di permanenza nel Salento l’artista ha esplorato il territorio, conoscendo luoghi e antichi saperi. Incipit della sua riflessione è il notissimo mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, realizzato tra il 1163 e il 1165 dal presbitero Pantaleone, vero e proprio serbatoio di immagini archetipiche, di pathosformel per dirla con Warburg. Troni lapidei decorati a mosaico, blocchi in pietra leccese solo in parte scolpiti e riproducenti esseri zoomorfi, bacini in terracotta, un uomo-caprone come idolo antico, una Torre di Babele franata, mantelle ricamate dalle Costantine e tronchi di ulivi attaccati dalla Xylella, rievocativi degli squilibri ambientali, sono queste le opere di Maria, che insieme alla sua raffinata visionarietà testimoniano la stretta collaborazione con le maestranze locali: lapicidi, mosaicisti, tessitrici, contadini, pastori. L’artista riformula i motivi iconografici e decorativi del mosaico creando un percorso capace di richiamare immagini da Salento arcaico, da Grecia arcaica (vi è differenza?). Scene da Medea pasoliniana che compongono un tracciato coinvolgente, dal quale ci sentiamo avvolti. Nella circolarità della torre risuonano i gorgheggi di Demetrio Stratos. Andiamo via accompagnati da questi suoni a tratti stridenti eppure affascinanti, rievocativi di un mondo lontano nel tempo, che anche noi ricerchiamo e al quale vogliamo attingere.
Alla scoperta dell’arte della cartapesta
Le idee procedono di pari passo con le suggestioni. Siamo al giro di boa e la residenza inizia a dare i suoi frutti. Come auspicato, l’attraversamento porta con sé la conoscenza di luoghi e fatti, mentre l’esplorazione sfocia progressivamente in creazione. Proseguiamo sulla via indicata dalla memoria e dalla materia alla ricerca dell’Urbild. Dopo San Cesario, Otranto e Casamassella, giungiamo a Lecce, tra le capitali europee del Barocco, paragonata per questo, con definizioni iperboliche, ad Atene o Firenze. Qui scopriamo l’antica tecnica della cartapesta, vera peculiarità del territorio salentino. A mostrarcene i segreti, tra storia e tecnica, è Mario Di Donfrancesco, il più noto tra i maestri cartapestai leccesi. La cartapesta affonda le sue radici tra XVI e XVII secolo, quando artisti del calibro del Sansovino e di Bernini ne fanno largo uso, specialmente nella fase progettuale. Ma è soprattutto nel corso del Novecento che l’arte della cartapesta riceve un impulso notevole. Il successo è dovuto principalmente all’economicità e alla trasportabilità delle statue, fattori che le fanno preferire a quelle in legno. Un successo che prosegue ancora oggi, come ci spiega il nostro ospite, dovuto alla creazioni di nuovi santi (Padre Pio è tra i più richiesti) e al progressivo innalzamento di età dei portatori di santi. Al suo successo tuttavia contribuisce anche il crescente interesse verso questa antica tecnica da parte di artisti contemporanei.
Sulle orme del maestro
Di Donfrancesco nel corso della sua carriera ha lavorato con e per diversi creativi. Il più noto di tutti è Luigi Ontani, del quale conserva, oltre al calco del volto (che non abbiamo avuto difficoltà a riconoscere tra le decine di fregi, teste, mani, piedi, in cartapesta e terracotta, appesi alla parete), ma anche un doppio ritratto focheggiato di Pinocchio e Dante, tra i più tipici travestimenti dell’artista emiliano. Nè Francesca nè Gianfranco resistono alla tentazione di farsi fotografare con quella maschera. Mario ricorda bene il momento in cui, vent’anni fa, Ontani era con lui in bottega e creava poche, selezionatissime opere, plasmando, colorando, focheggiando. La focheggiatura è nella cartapesta il momento che precede l’applicazione del gesso. Dopo aver foggiato il corpo applicando la paglia su un’anima in fil di ferro si inizia ad applicare la carta. Il vero segreto della cartapesta è il collante denominato, in dialetto salentino, “ponnula” la cui consistenza deve essere come “quella della crema del pasticciotto”. Affinché la carta incollata assuma maggiore resistenza viene levigata con un ferro riscaldato che in taluni punti la brucia dandole un particolare aspetto a macchie. Successivamente si applica sopra il gesso e il colore. Angelo Capoccia, il maestro di Mario, è stato il primo a comprendere che la statua focheggiata potesse avere già una sua valenza estetica. Proseguiamo con la visita. Mario avverte: “la bravura di un maestro si riconosce subito dai volti e dalle mani”. Lui in tal senso non teme rivali. Non solo ha appreso l’arte da un grande, ma continua a praticarla utilizzando i calchi di altri grandi. Davanti a noi si apre uno stanzino stretto e lungo. Su scaffali di ferro sono stipati centinaia di calchi, molti dei quali di Luigi Guacci, ma anche di Indino e dello stesso Capoccia. Ora le foto storiche appese alle pareti che riprendono l’antico laboratorio di Guacci agli inizi del Novecento ci appaiono più chiare. Mario ci mostra con orgoglio quei calchi ma allo stesso tempo si preoccupa del loro destino. Nessuno dei suoi tre figli proseguirà la sua strada. In assenza di una specifica tutela quei preziosi calchi potrebbero perdersi.
Gianfranco è affascinato dal procedimento tecnico della cartapesta. Pone domande e ascolta affascinato tanto il maestro quanto i suoi collaboratori. Francesca invece gira in solitaria per la bottega. Sembra rapita dai soggetti: cuori, mani, visi, fiori, il tutto sospeso in un’insolita atmosfera tra sacro e profano. Salutiamo Mario non senza però fargli delle richieste specifiche. Francesca e Gianfranco hanno scelto entrambi di avvalersi della sua maestria. L’obiettivo dell’interazione con le maestranze del luogo è raggiunto e la nostra residenza, fondata all’esplorazione, inizia concretamente a tradursi in esposizione.
Nota a margine: la giornata per Gianfranco e Francesca prosegue nel pomeriggio a Surbo, dove incontrano la ricamatrice Maria Centonze. Tanti centrini, nuove conoscenze, tante foto e nuove suggestioni.
L’incanto del barocco leccese
Il viaggio, si sa, richiede delle soste. Dopo la necessaria pausa di riflessione di sabato e domenica, durante la quale i nostri due artisti hanno potuto meglio elaborare e interiorizzare quanto visto e fatto, riprendiamo il nostro attraversamento del territorio salentino. Proseguiamo con l’esplorazione di Lecce. Visitiamo un laboratorio di restauro di opere d’arte nel centro storico. L’incontro è a Porta Rudiae, una delle tre porte di accesso al centro cittadino, così denominata perché guarda all’omonimo insediamento messapico, noto per aver dato i natali al poeta latino Quinto Ennio.
Superata la porta si apre, in un immediato colpo d’occhio, via Libertini, una delle vie del barocco leccese. Conduce fino a piazza Sant’Oronzo, cuore laico della città, sede del Comune. Su di essa affacciano, in ordine, la chiesa del Rosario, l’Ospedale dello Spirito Santo, la chiesa di Santa Elisabetta, la chiesa di Sant’Anna, la chiesa di Santa Teresa, Piazza Duomo, la chiesa di Sant’Irene e molti dei più bei palazzi nobiliari leccesi.
Percorriamo quattro secoli e più di storia. Alla mente ritornano le parole di Martin S. Briggs (In the Heel of Italy, Londra 1910): «Gli edifici di Lecce sono interessanti, pittoreschi, arditi, e se fossero disposti in ordine su due linee parallele formerebbero una delle più belle vie d’Europa». Con lo sguardo in alto, tra i ricami di pietra, Francesca e Gianfranco ricercano le pathosformel, le immagini primordiali. Osserviamo e ci sentiamo osservati. Arriviamo a destinazione.
Il regno della pittura
Il luogo è di per sé suggestivo: un antico convento trasformato nel corso dei secoli prima in palazzo nobiliare e poi in un più intricato groviglio di ambienti residenziali. L’oggetto d’indagine primario della residenza è la memoria del luogo e qui ne troviamo tanta. È la memoria delle opere in restauro, appartenenti tanto ad enti pubblici che a collezionisti privati, in una combinazione tra storia collettiva e dimensione individuale. Si vede e si respira la pittura. La maniera più rappresentata è quella caravaggesca, con neri che ingoiano e potenti chiaroscuri. Non poteva essere diversamente: quelli tra Sei e Settecento furono i decenni di massimo splendore per Lecce e il Salento. Tuttavia alcuni dipinti si impongono per accensioni cromatiche. Ricordano stilemi tardomanieristi e altre scuole, diversa da quella napoletana, predominante in Puglia. Quella della pittura è un’altra anima del Salento, che Francesca e Gianfranco devono conoscere.
La magia del restauro
Ad accoglierci è il titolare del laboratorio, Marco Fiorillo, restauratore accreditato presso la Soprintendenza, formatosi a Firenze con importanti esperienze all’Opificio delle Pietre dure e al fianco di restauratori del calibro di Paolo Gori (restauratore di Giotto, Beato Angelico, Parmigianino). Il laboratorio è un luogo magico. Ha appena concluso uno dei suoi restauri più prestigiosi: la tavola della Madonna del Carmelo della prima metà del Cinquecento, di scuola veneta, del Museo Diocesano di Lecce. Marco ci mostra le opere a cui sta lavorando. Piccole tele ma anche grandi pale d’altare. Ci spiega alcune fasi del mestiere: la rifoderatura, il rigatino, la pulitura. Ogni opera ha una storia a sé e per questo va trattata con interventi specifici. Si fanno nomi importanti, da Palma il Giovane a Battistello Caracciolo, fino allo stesso Caravaggio. Nelle parole come nei dipinti la memoria si stratifica. L’idea che su quelle tele abbiano lavorato antichi pittori è di per sé affascinante. I nostri artisti ascoltano incuriositi. Gianfranco ricorda le lezioni di restauro all’Accademia di Roma. Francesca si rammarica per non averle seguite. Giriamo indisturbati nel laboratorio. Gianfranco dialoga, Francesca fotografa. Visitiamo anche l’attiguo cortile, è tutto ciò che resta dell’antico chiostro conventuale. Tra piante monumentali e antichi resti i nostri artisti cercano nuove suggestioni.
24 agosto 2021
Open Studio in galleria
Si avvia alla conclusione Red Lab Artist-in-Residence #1. Nei prossimi due giorni (la fine della residenza è fissata al 26 agosto), ma anche in quelli a venire, Gianfranco Basso e Francesca Loprieno creeranno le loro opere, singolarmente o congiuntamente, ma sempre in dialogo. Ma prima di salutarci abbiamo ritenuto doveroso intraprendere una prima azione di restituzione al territorio. Per questo stasera, con gli artisti e la gallerista, Lucia Pezzulla, abbiamo incontrato il pubblico nella sede leccese di Via Bonaventura Mazzarella, nel tentativo di riconsegnare, in forme nuove, quanto ci è stato donato. Abbiamo accolto il pubblico in una galleria trasformata in laboratorio, in luogo del pensiero e delle parole. Per l’occasione ho chiesto a Francesca e Gianfranco di esporre in galleria gli oggetti raccolti nel periodo di residenza. Non opere ma elementi significativi attraverso i quali spiegare il loro percorso di esplorazione all’interno del Salento; testimonianze oggettuali di un’esperienza che è esteriore ed interiore insieme, ma anche metafore del loro recente vissuto, foriero di riflessioni individuali, di trasformazioni interiori e, perché no, di ripensamenti. Un incontro necessario, che da un lato ci ha permesso di restituire con le parole, gli oggetti e le immagini quanto (ap)preso nei dieci giorni di esplorazione, ma anche di fissare i tratti fondamentali delle prossime ricerche, quei punti fermi da cui tanto Gianfranco quanto Francesca, nel loro ininterrotto dialogo, partiranno per la creazione dei lavori di residenza.
Ospiti in casa propria
Un’esperienza lavorativa che, fin dalle prime ore, si è trasformata in esperienza di vita, non solo per le relazioni instaurate, amicali prima che professionali, consolidate in ore di visite condivise, incontri conviviali e lunghe discussioni, ma anche per le consapevolezze acquisite. Il lavoro sugli archetipi ha consentito ai nostri artisti (e non solo) di riflettere sulla comune origine pugliese (ma il ragionamento è estendibile a qualunque altro luogo), intesa non semplicisticamente come provenienza, ma come conoscenza di un territorio al quale si sente di appartenere ma del quale si conosce poco, forse molto, ma certamente non tutto. Francesca e Gianfranco sono entrambi pugliesi ma da anni vivono in altri luoghi, rispettivamente Parigi e Roma. Per loro svolgere una “residenza” in Puglia è sembrato quasi paradossale, almeno agli inizi. È stato come essere ospiti in casa propria. Questo ha fatto sì che entrambi vivessero le prime fasi di residenza con una pervasiva sensazione di spaesamento. Eppure proprio questo distacco ha consentito loro di guardare con nuovi occhi alla terra pugliese (il termine “terra” è da intendersi non come suolo ma come insieme inscindibile di storia e cultura che su quel terreno si stratificano). Uno sguardo né interno né esterno ma ibrido. I loro occhi sono quelli di chi questa terra l’ha lasciata, di chi la conosce o meglio crede di conoscerla, ma di fatto la scopre “nuova”. La novità non è nella cosa in sé ma è in quegli occhi finalmente liberi da presunzione di conoscenza. Lavorare sulle immagini primordiali, quindi, ha significato entrare in contatto con le radici di un territorio e scoprire che sono anche le proprie. La consapevolezza acquisita è quella di non poter dare nulla per scontato. La conoscenza impone l’attraversamento, ma quest’ultimo, per essere tale, richiede la messa in discussione, l’abdicazione di ciò che è familiare e una continua esperienza di spaesamento.
Dal candore dei ricami al pianto della terra
Il Salento è luogo che bene si presta a questo tipo di esperienze; è luogo che più e meglio di altri ha conservato le proprie tradizioni. Lo dimostrano le molte maestranze visitate ma anche i tanti racconti ascoltati. Il suo attraversamento ha fatto sì che entrambi i nostri artisti si interrogassero su come sia possibile vivere un territorio (che è anche il loro) attraverso l’arte. Da qui l’importanza di scoprirne gli archetipi, di risalire a quelle immagini primigenie che entrambi, attuando un’estrema sintesi, hanno ricondotto al cerchio. Francesca ha ritrovato le origini del suo essere figlia e donna nei centrini illustrati dalle tessitrici della Fondazione Le Costantine, di Maria Centonze, ricamatrice di Surbo che l’ha accolta in casa raccontandole le storie di quante le commissionano quei ricami, e di anonime donne di un mercatino dell’usato che le hanno insegnato a distinguere fattura e qualità. Tante parole per altrettante visioni che, nella mente dell’artista, si sono trasformate in un’unica immagine archetipica, tanto estranea quanto affascinante: quella della donna che ricama per qualcosa o qualcun altro ma anche per sé, facendo del suo sapere un carattere distintivo ma anche il segno di appertenenza alla propria cultura. Non diverso il ragionamento di Gianfranco che nel pianto della terra flagellata dalla Xylella ha riconosciuto il suo pianto, quello dei suoi avi e di tutta una comunità che ora si stringe attorno a quel luttuoso velo nero che l’artista ha scelto di portare in galleria, appendendolo alla parete e rompendo il candore dei centrini bianchi disposti da Francesca. Lutto, dolore, tragedia ma anche speranza, quella rappresentate delle radici plasmate in tanti cerchi intrecciati o del ramoscello d’ulivo (uno dei tanti malati e tagliati) chiuso a formare un uroboro, simbolo ancestrale di rinascita. La speranza è tale solo in assenza di certezza. Di qui la scelta di ricamare la scritta “Forse” su un setaccio (l’antico “farnaro”), strumento fondato sul sì e sul no, che distingue ciò che passa da ciò che non passa. Gianfranco insinua il dubbio anche nella più solida delle certezze, parafrasando quello spaesamento a cui facevo riferimento, esperienza immancabile in ogni autentica azione di ricerca.
Il nostro diario di bordo si chiude qui. Anche la residenza sta per concludersi ma nuovi dialoghi ci attendono. L’obiettivo è la progettazione della mostra. Non un addio dunque, ma un arrivederci.